Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personeLo scrittoio
di Massimo Tallone
Noi dicevamo tagliare.
«Oggi interroga di matematica. Voi fate come volete, io taglio» diceva uno, davanti alla scuola. «Anch’io, allora» aggiungeva un altro, e si univa al primo. Nel giro di pochi minuti la decisione era presa; si passava la mattina in giro, al bar Impera a giocare a biliardo, o al cinema Centrale (spesso c’erano proiezioni mattutine), o seduti sotto un monumento a parlare di mille cose e a ridere come matti.
Tagliare era un modo per sfuggire alle interrogazioni. Ma era anche una risposta sfrontata e orgogliosa all’autorità, al dovere, alla sudditanza degli obblighi. Tagliare faceva sentire forti, spavaldi, e non ci sfiorava mai il sospetto che scappare di fronte alle prove fosse vile. Né pensavamo che anteporre la frettolosa vacuità del divertimento immediato alla pesante ma redditizia fatica scolastica fosse infantile. Insomma, si tagliava volentieri, e le ragioni erano sempre quelle, o una o l’altra.
Il sabato, però, avevo un motivo tutto mio e privato per tagliare. Non tutti i sabati, s’intende, ma ogni tanto, e la ragione era quella di andare al Balon, da solo, e girellare in quella atmosfera brulicante di persone, di passato, di vitalità, dove anche gli oggetti sembravano dotati di anima, di vita. Il mercato delle ‘cose usate’ si dilatava nelle vie subito dietro i banchi di Porta Palazzo, fra i quali pulsava un altro tipo di vita, quella delle necessità quotidiane, del commercio alimentare, della frutta, della verdura, delle voci che gridavano prezzi e sconti in un prisma che si impastava di colori, di suoni e di odori nel formicolare indistinto di arti e di borse.
Al Balon, il sabato, era consigliabile arrivare presto per godersi l’immersione nel passato in condizioni di ressa accettabili. Sceso dal tram, mi infilavo rapido in via Borgo Dora, dopo aver attraversato il lato del mercato alimentare, e dopo pochi passi sentivo subito quell’aria diversa e oserei dire bidimensionale, come se fossi entrato dentro un quadro, come se svoltando a sinistra avessi attraversato il tempo cadendo in una stampa d’epoca. Lungo la via tortuosa, così rara per Torino, sui ciottoli color acciaio, tondi e lisci, erano esposti all’aperto mobili antichi o soltanto vecchi, alternati a teli distesi a terra che ospitavano primitivi ferri da stiro, cavallini a dondolo, saliere di vetro, abat jour a stelo flessibile e lampade liberty, cornici vuote, sedie da cinema, colbacchi, telefoni di bachelite, servizi di posate ammucchiati in piramidi argentee. Fragili banchi sostenuti da cavalletti presentavano articoli a tema, bicchieri di mille fogge e dimensioni, soprammobili di avorio, spazzole con manici di corno. Le ragazze si assiepavano intorno alle stanghe su cui erano agganciati abiti con pizzi e trine che accostavano, posandoli sul petto, a schiena indietro, ai gonnelloni di prammatica.
Fu in uno di quei solitari vagabondaggi del sabato che la vidi. Era un po’ indietro, defilata, nell’interregno fra i mobili en plein air e quelli accatastati all’interno del negozio senza porte, simile a una caverna.
Mi guardò? Giurerei di sì, tanto fu immediato e definitivo il contatto visivo.
Era una scrivania, o meglio uno scrittoio a serranda, come disse il mercante di mobili, notando il mio interesse. Era un mobile pesante, di legno lavorato, dal cui piano di scrittura, appena oltre la metà, sorgeva la struttura, composta di cassetti e cassettini ordinati e di nicchie simmetriche, chiusa ai lati da due spallette lungo le quali scorreva la serranda di legno. Sotto il piano, ai due lati, altri cassetti, profondi. Fissai quel pezzo d’antiquariato come si fissa un’apparizione, un’eruzione vulcanica, un’eclissi.
Avevo diciotto anni e gli ultimi quattro li avevo dedicati ai piaceri segreti e sontuosi della letteratura. Mi ero infiammato per Dostoevskij; avevo riso con Gogol e pianto per la sorte di Lenny, in Uomini e topi; ero sceso nella palude di Simenon; avevo fantasticato con Dickens e adorato la Ginestra, imparandola a memoria per non dimenticare mai il coraggio e l’audacia mentale di Leopardi.
A causa di quei libri, con una furia analoga a quella che aveva colpito quell’invasato di Don Chisciotte, con un ardore intenso come quello che era divampato nella mente e nel cuore di quell’intossicata d’amore di Emma Bovary, si era dilatata in me, a poco a poco, l’immagine notturna e lunare di un mio ‘me’ futuro seduto a uno scrittoio che era tutt’uno con quel ‘me’ e che assorbiva, con il suo legno robusto, ambrato, la mia titanica dedizione all’opera assoluta, perfetta, eterna. Lo scrittoio immaginario occupava quasi per intero lo spazio del sogno ed era diventato, come per concreta sineddoche, la condizione di base per poter accedere a quel ‘me’ che mi aspettava laggiù, nel futuro, quel ‘me’ scrittore.
Lo scrittoio del Balon, quel sabato, sembrava uscito dalla mia immaginazione, dal mio angolo di vita futura, irreale e occulto. Era uguale, era lui.
Stetti forse tre ore nei dintorni di quell’antiquario. Saprei indicare ancora oggi il punto esatto in cui si trovava.
«Fa duecentocinquantamila lire» aveva detto il mercante, posando i pugni sui fianchi e spingendo in fuori la pancia, come a dire che quella non era roba per me. Lo stipendio mensile di un impiegato, a quei tempi, era assai inferiore. Non avevo quei soldi e non avrei potuto chiederli ai miei genitori. Non avevo già una ribaltina, nella camera che condividevo con mio fratello? Che bisogno c’era di una scrivania? Così grossa, per di più. Non ci sarebbe stata, nella stanza. Erano obiezioni alle quali non avrei risposto. Non le avrei nemmeno sentite. Quello scrittoio era destinato a un ‘me’ che non c’era ancora. Certo, non mi sfuggì l’analogia con Akakij Akakievič e con il cappotto che tanto agognava, ma mi sentivo diverso da quel banale arrivista. Il mio non era un bisogno teso a soddisfare la competizione sociale. Era il legame con una porzione di me che per nascere aveva bisogno di quello scrittoio.
Dopo quelle implacabili tre ore mi presentai al corpulento antiquario.
«Lo compro» gli dissi, «le do diecimila lire subito, come anticipo. Oggi pomeriggio gliene porto altre quarantamila. Le pagherò il saldo alla consegna, non prima di venti giorni, però.»
Accettò, prese la banconota e ci demmo appuntamento per il pomeriggio.
Prima di tornare a casa caracollai fra i banchi di Porta Palazzo in uno stato sognante e di tremore insieme. Il mio ‘me’ futuro stava nascendo, lo sentivo. A casa, nessuno notò nulla. Pranzai come sempre, in famiglia, poi mi fiondai di nuovo al Balon, con tutti i miei risparmi, firmai la nota di acquisto e concordai la data e l’ora della consegna. Quella firma mi proiettò in uno stato ancor più febbrile, tanto che la sera non mangiai e quella notte non riuscii a dormire. Lo scrittoio era lì, possente e affettuoso, davanti ai miei occhi spalancati. Era parte di me, era me. Ero entrato nella nuova vita. Avevo raggiunto la porzione di me che mi aspettava.
Ero sicuro che nei venti giorni successivi avrei racimolato i soldi necessari a saldare il conto. Non sapevo come, ma non mi preoccupai. Avrei giocato alla roulette, come Dostoevskij; avrei tentato la schedina vincente; mi sarei battuto come una tigre oppure non avrei fatto proprio nulla, perché sapevo che il cielo, o meglio quell’angolo di cielo in cui scorrazzavano Flaubert, Oscar Wilde, Tolstoj, Landolfi, mi avrebbe aiutato. I soldi sarebbero arrivati, non avevo dubbi. Dovevano arrivare, era come se il destino fosse già stato scritto. Avrei avuto lo scrittoio, poi avrei cercato la soluzione per fargli posto, in casa, anche se avessi avuto tutti contro, come era inevitabile.
I giorni passarono, la mia mente era sempre là, a Porta Palazzo, al Balon. Non mi diedi troppo da fare per raggranellare la cifra mancante. L’impresa che avevo compiuto apparteneva al sogno, si stagliava in un tempo non ancora giunto, quindi non potevo sperare in una soluzione agganciata al presente. Lo scrittoio con i cassetti era la materializzazione del futuro, perciò i soldi sarebbero arrivati dal futuro. Nel presente non c’erano. Sarebbe accaduto un miracolo, ne ero certo, dato che l’apparizione stessa dello scrittoio era stata miracolosa.
Il miracolo non si compì.
Giorno dopo giorno, ora dopo ora, avevo visto ridursi il varco di luce che mi portava al futuro. Fino a che quel diaframma, ormai minuscolo come un chicco di riso, sparì.
Il giorno arrivò. Guardai l’ora, seduto alla mia ribaltina, in casa. Il campanello suonò. Volai al citofono e risposi. Erano loro… Scesi di volata, gridando che era per me, ed ero irato contro il cielo. Il mercante panciuto non c’era. Il camion aveva le ante posteriori aperte. Guardai lo scrittoio, poi feci un cenno a uno dei due uomini dei trasporti, come a chiedere che cosa volessero.
«Dobbiamo consegnarlo a Massimo Tallone» disse uno dei due, indicando l’interno.
Scossi la testa e abbassai lo sguardo, in silenzio.
«C’è qualcosa che non va?»
Alzai gli occhi sul giovane.
«Massimo era mio fratello…» dissi, a bassa voce.
«Era?» fece l’altro.
«Sì, era… È morto una settimana fa…»
Ci guardammo. Impedii al ragazzo di replicare.
«Non ci aveva detto niente. Tenga lo scrittoio. E tenga anche la caparra, nel caso l’avesse data… Buongiorno» dissi, con una voce di pietra. E me ne andai senza un saluto, senza più posare lo sguardo sullo scrittoio, senza una lacrima. Il futuro era volato via, decapitato da due banconote affilate come lame di ghigliottina.
Per fortuna, un paio di anni dopo mi imbattei in un libro di Paul Valéry, e una sua frase, buttata lì con noncuranza, rivoluzionò il mio assetto mentale: «La maniera migliore per realizzare i propri sogni è svegliarsi».
Non avevo più bisogno dello scrittoio.