Borgo Rossini stories
Il quartiere si racconta attraverso le voci delle personeL’appartamento arancione
di Alessandra Chiappori
Il taxi era sbucato all’angolo di via Foggia. «Eccolo, quel palazzo lì» aveva indicato Teresa all’autista. Era la seconda volta che parlava da quando era salita: una corsa muta e imbarazzata, le due di notte di una serata finita non proprio come aveva pronosticato. Ma adesso preferiva non pensarci, adesso c’era l’impiccio più grande: presentarsi a casa di Fabio nel cuore della notte.
«Sei sveglio? Ti posso chiamare?» aveva digitato sul telefono. Sperava che il suo amico rispondesse, che non facesse troppe domande. Si era voluta fidare del compagno di corso che aveva iniziato a frequentare. Una festa, facciamo serata. Pendolare lei, studente alloggiato in collegio universitario lui. «E dopo come torno a casa se facciamo tardi? Sono in treno…» Teresa aveva cercato di declinare l’invito, seppure tentata. «Beh, faremo after – l’aveva rassicurata lui – una panchina, una piazza e le stelle, eh? E poi all’alba colazione».
Un’idea avventata: Teresa se n’era tristemente resa conto quando, all’una passata, senza più treni né soluzioni per la notte, era uscita sola dal locale, abbandonata dal ragazzo che l’aveva emarginata per dedicarsi a cocktail e nuove amiche. «Che errore madornale» si ripeteva ingoiando le lacrime. Ma serviva lucidità: era notte, era sola in una Torino fredda e deserta senza un posto dove andare. A meno che…
Fabio, il suo amico d’infanzia, aveva preso casa con due coinquilini in via Foggia. Viveva lì da tre anni, in un appartamento tutto arancione dove Teresa era stata diverse volte, approfittando della stanza di uno o dell’altro coinquilino, assenti, per fermarsi a Torino. Non aveva idea di chi abitasse la casa in quel momento, ma aveva aggiornato Fabio durante la serata, probabilmente era ancora sveglio. Gli aveva scritto con i battiti a mille, implorando che rispondesse. Si vergognava di quel gesto, ma era l’ultima speranza davanti a un immenso punto interrogativo. «Certo – l’aveva rassicurata con la voce impastata il suo amico, sussurrando per non fare rumore – però c’è solo il divano, sono tutti in stanza e io… ehm, c’è Serena. Quando arrivi scrivimi che ti apro. Ah, e prendi un taxi, non vorrai mica venire a piedi?».
L’imbarazzo di Teresa era schizzato alle stelle. Voleva solo sparire, rannicchiarsi sul divano al quarto piano di via Foggia e cancellare tutto. «Aspetto che entri dal portone, stia tranquilla» l’aveva rassicurata con inaspettata cortesia il tassista. Balbettando un grazie, Teresa aveva inviato il messaggio pronto da minuti sul telefono. Con un “tac!” secco il portone si era aperto. Aveva inforcato le scale per non fare rumore con l’ascensore. Fabio l’aspettava, una mano sulla porta aperta, l’altra a tenere su i pantaloni del pigiama. Capelli stravolti e faccia da sonno, le aveva messo una mano sulla spalla: «Tere, ma che razza di casino…?». Lei aveva scosso la testa come a dire “non ne parliamo, ti prego”, e intanto aveva posato la borsa sul divano: «Posso?».
Le quattro di notte. L’appartamento di via Foggia era una bolla silenziosa, le porte delle tre stanze chiuse, Teresa sola e sveglia in salone. Si era tolta le scarpe e si abbracciava le ginocchia giocando con le strisce di luce che filtravano dalla tapparella. Il divano era scomodo e non si era potuta nemmeno lavare i denti, ma questo non l’avrebbe mai detto a Fabio. Era già un miracolo che potesse passare la notte lì.
Di dormire non aveva nemmeno l’idea: troppi pensieri, troppo imbarazzo a sapere l’appartamento occupato dai legittimi inquilini e dalla ragazza del suo amico. Serena era di là, dal cono di luce della stanza di Fabio, prima, era arrivato un rumore palese di lenzuola smosse. Lei non aveva voluto nemmeno una coperta: «Va bene così, mi accuccio qui, non lo apro nemmeno, il divano. Tranquillo, mi basta, e scusa, scusa tanto» a stento aveva trattenuto il magone rassicurando Fabio. Sperava che il suo amico la rincuorasse ma no, non era serata, non era lei la priorità.
Aveva familiarizzato con gli odori di cucina che ogni tanto caratterizzavano l’atmosfera della casa in via Foggia, con i sacchi di spazzatura strabordanti e la polvere accumulata sui mobili, persino con le pile di piatti che, per ringraziare dell’ospitalità, si offriva di lavare. Ora guardava sognante la lunga vetrata che l’indomani avrebbe inondato di luce la cucina. Affacciava, alta, su una riga candida di vette alpine, lo ricordava bene. Poco sotto la maestosità delle montagne si arrampicavano le buffe scale di comignoli fumanti che le facevano venire in mente i tetti di Mary Poppins. Passava sempre minuti a osservare quel panorama, il più delle volte con una tazza in mano in pigre colazioni che seguivano le sue incursioni in quel nido universitario.
Lei e Fabio si erano congedati in uno sguardo: «ah, il caffè per domani…». Sì, sapeva tutto: dov’era il barattolo, dov’era la moka, come funzionava il fornello. Avrebbe lavato la tazza e lasciato un saluto su un post-it. Bisognava solo aspettare l’alba.