Borgo Rossini stories
Il quartiere si racconta attraverso le voci delle personeOltre il Ponte
di Eleonora Carta
Quel sabato di inizio novembre aveva piovuto, poi era uscito il sole. L’aria era frizzante, ma non gelida. I colori erano intensi, come dipinti di fresco, e la città mi appariva limpida. E mi guardava. Sì. Torino mi guardava. Sembrava chiedermi chi fossi, e cosa ci facessi lì.
Non ebbi voglia di risponderle. Correvo a perdifiato verso la mia nuova vita e non volevo pensare, non volevo capire, volevo soltanto vivere.
Ricordo, come in una fotografia, l’immagine del fiume, e il momento in cui ho attraversato il Ponte. E dovevo capire – ma subito non ho capito – che come tutti i ponti, stava lì a segnare un passaggio. Una fine e un inizio. Una soglia. L’acqua scorreva sotto di me – che andavo avanti – mentre qualcosa – tanto di me – rimaneva indietro.
Oltre il ponte, ricordo una grande piazza rotonda, alberi, un orologio fermo all’angolo di un palazzo. Ricordo l’acqua gorgogliante nella fontana, in cui un giorno avrei visto posarsi una coppia di germani. Ricordo l’inclinazione dei raggi del sole che dalla collina entravano dritti in via Modena. Le aiuole spartitraffico, su via Catania e corso Regio Parco, che mi apparvero enormi, arredate con piante e panchine, come una lunghissima piazza a percorrere la via intera. Ricordo il palazzo di quella che sarebbe diventata la mia casa. I piccoli mattoni grigi della facciata. La maniglia d’ottone lucida, sul portone a vetri, che si apriva. Le scale. L’ascensore. Tutto era così diverso da quello che ero stata fino ad allora. Ma era bellissimo.
Poi però non ricordo altro, e mi dispiace. Tante volte ho sperato di ritrovare, da qualche parte nella memoria, la mia meraviglia di quel giorno. La curiosità di scoprire i luoghi che col tempo avrei imparato a conoscere. L’incanto nel guardarmi intorno e trovare file di palazzi, e tende verdi sui balconi, negozi che chiudevano presto, e tram, e lampioni maestosi, e colori di cielo e di vento che non conoscevo.
Ma ero troppo emozionata per avere la lucidità di fermarmi a respirare; troppo frastornata all’idea che stesse succedendo davvero, per riconoscere quello come uno dei pochi momenti che, nel corso di un’intera vita, si possono considerare realmente unici. Quando tutto era ancora possibile, e potevo ancora fare tutto quello che non avevo mai fatto, ed essere tutto quello che non ero mai stata. Ero troppo carica di impazienza, di gioia e di orgoglio, per capire che in futuro avrei rimpianto l’assenza di quel ricordo. Avrei dovuto fermarmi e dire a Torino: ce l’ho fatta. Non avrei mai creduto di trovare questo coraggio, e invece sono qui, e ce l’ho fatta.
Confesso. Quel giorno non sapevo di trovarmi in un borgo. Non conoscevo i quartieri di Torino, e non avevo idea che una grande città potesse comprendere al suo interno tante piccole città, la maggior parte delle quali molto più grandi del paese della Sardegna da cui arrivavo. La immaginavo come un blocco unico, un contenitore di luci, case, locali, piazze e strade, vite e vicende, che ogni tanto, per caso o per necessità, capitava anche s’incontrassero. Col tempo, però, ho cominciato a percepire attorno a me qualcosa di familiare. Esisteva, tra le lunghe vie e i lampioni e gli alti palazzi, una dimensione che conoscevo, fatta di vicinanza, di parole dal balcone, di saluti per strada, di acquisti fatti nelle piccole botteghe in cui ritrovarsi diventava normale.
È stato un lungo cammino di conoscenza reciproca, quello tra me e il borgo. Sono arrivata come una turista, per una specie di insperata vacanza dalla realtà, ma quella vacanza si è trasformata in vita vera, ed è stato allora che ho provato il desiderio di esserne parte. In un modo imperfetto, certo, nei limiti imposti dal fatto che torno troppo spesso in Sardegna e che ho un accento troppo sardo per essere scambiata per una torinese.
Ma è successo, e come spesso nelle cose della mia vita, è stato un libro a farlo succedere.
Qualche tempo dopo il mio arrivo a Borgo Rossini, all’angolo della piazzetta, ho visto qualcosa cambiare. Correva voce che avrebbero aperto una libreria. Ho detto a Torino: allora mi vuoi. Arrivo qui per una nuova vita, così lontana da casa, dal mare, dai miei affetti e dai miei gatti, e a due passi da me apre una libreria. Non poteva essere un caso.
Non lo era infatti. In breve tempo, quella libreria è diventata un punto di riferimento. Uno di quei luoghi a cui si ritorna sempre, e si desidera sempre fare ritorno, perché vi succedono cose belle. Rifugio e tramite. Luce calda nelle sere d’inverno. Famiglia. Festa, con i tavoli in piazza per le cene dei vicini. Letture e canzoni, brindisi e musica. E libri. Tantissimi libri belli che non basterà la vita intera per leggere. La libreria mi ha reso cittadina del borgo e in tanti modi diversi si è intrecciata alla mia vita, contribuendo a cambiarla per sempre. Ecco perché ai miei occhi appare il luogo verso cui tutto il borgo converge e da cui l’essenza del borgo torna indietro moltiplicata, nelle sue voci, idee e parole. Che sanno viaggiare su onde così lunghe da arrivare fino a qui, in Sardegna.