Barriera stories
Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle personeLa mia Barriera, tra sapori e immagini
di Davide Gambaretto
Dentro la Barriera è tutto fuori dalle righe recita il murales sull’edicola, ormai chiusa, che si trova in Largo Giulio Cesare. Non c’è nulla di più vero. Non ci sono nato, né vi ho mai vissuto, a Barriera di Milano, ma in quanto abitante dei quartieri Rebaudengo prima e Aurora poi, Barriera è stato uno dei luoghi di passaggio – geografico e formativo – in cui sono cresciuto, ho stretto amicizie, imparato lezioni di vita e lavorato.
Forse il primo ricordo legato al quartiere si formò in me a causa delle storie negative che se ne raccontavano: possibilità di brutti incontri, certo, ma soprattutto la descrizione di un luogo aspro e duro, operaio, che non lasciava spazio alla cultura e alla bellezza.
A ripensarci, però, quello non è davvero il mio primo ricordo di Barriera. Senza che io sapessi dove stavo andando, quando ero piccolo i miei nonni mi portavano spesso al mercato di piazza Foroni. Era un mercato molto più esotico e profumato, rispetto a quelli che avevamo vicino a casa (l’età non mi aveva ancora permesso di conoscere Porta Palazzo, sede dei miei più arditi sogni gastronomici successivi). Tra l’acquisto di qualche cima di rapa e di un paio di “fettine”, immancabile era la fermata al panificio, dove il commesso mi regalava sempre un grissino, intenerito dal mio aiutare la nonna a portare, goffamente, buste della spesa semivuote. Questo rituale è rimasto anche in età più adulta, anche se l’obiettivo del mio pellegrinaggio si è trasformato nel tarallificio Il Covo, massima espressione della pugliesità di zona, che ha portato la piazza a mutar nome in piazza Cerignola.
Molti dei miei successivi ricordi di Barriera oscillano tra arte e cibo; la prima per deformazione professionale, il secondo per deformazione nutritiva. Barriera è fuori dalle righe, dicevamo, e incarna, in piccolo, il macrocosmo-Torino, dove l’integrazione ormai compiuta dalle generazioni precedenti (i tanti migranti meridionali, ma pure quelli dal nord-ovest e dalle montagne/campagne limitrofe) ha creato abitanti che si identificano allo stesso tempo con il Veneto e la Campania, con la Calabria e la Puglia, dove le tradizioni si intersecano senza barriere e ti rendono fiero di essere chiamato torinese. Allo stesso tempo, il quartiere permette di assistere a una nuova ricerca spasmodica di integrazione, portata avanti dai migranti africani e arabi che, in maniera accorta, provano a catturare il nostro cuore con il cibo, partendo dal kebab, passando per le spezie del Maghreb e arrivando ai tanti piatti offerti nelle gastronomie senegalesi. Nemmeno a dirvelo che con me hanno vita facile.
Ma Barriera – posto grigio e operaio, dove la bellezza non potrebbe penetrare nemmeno con l’aiuto di un concerto di Paolo Conte, se ancora siete decisi ad abbracciare vecchi stereotipi – è anche il luogo dove l’arte si fa strada come erba tra le crepe nel cemento. Non per niente, qui troviamo il museo Ettore Fico e diverse gallerie; il fascino industriale decadente, fa presa sul settore culturale, si sa. Massima espressione di ciò sono i Docks Dora, un complesso di magazzini costruito tra il 1912 e 1914, dalle nove vite, neanche si parlasse di felini. Quando ero bambino ci andavo a studiare tastiere presso la scuola Yamaha, oggi ci vado a bere birra nei suoi tanti locali. E poi troviamo il progetto Opera Viva – che tramite le opere artistiche racconta la multiculturalità del quartiere – e i murales realizzati dallo street artist Millo – che parlano del rapporto tra proletariato di periferia millenial e spazio urbano.
Per la mia esperienza personale ha un posto speciale, però, Associazione Barriera, spazio di arte contemporanea in via Crescentino, dove ho avuto il piacere di realizzare un progetto artistico che mi ha permesso di tornare a vivere il quartiere. La curiosità e benevolenza con cui gli abitanti del luogo recepivano il lavoro che si stava realizzando all’interno dell’ex fabbrica aveva un nonsoché di corroborante. La gentilezza dei colorifici e delle ferramenta di zona, non appena si pronunciava il nome dell’associazione, ti portavano a lavorare con il sorriso. La partecipazione degli abitanti del quartiere agli opening faceva davvero pensare che l’arte contemporanea non è solo “roba” da addetti ai lavori. Di quel periodo, ricordo soprattutto le pause al bar di via Brandizzo, dove la nostra strana compagnia artistica la prima volta venne salutata semplicemente con un breve cenno del capo, scrutata, contestualmente, per capire “a chi appartenevamo”. La seconda volta eravamo già schedati, riconosciuti e quel piccolo segno di lealtà al bar ci aveva fatto guadagnare un saluto decisamente più caloroso. Saluto che la terza volta si trasformò in chiacchiere superflue e la quarta in un aperitivo offerto dalla casa. Eccoci alla squisita gentilezza burbera, tipica di tutti i quartieri “nord” di Torino, ma a Barriera ancor più tipica. Eccoci tornare a discorsi mangerecci e al negozio di quartiere, filo portante del mio amarcord.
Questo perché Barriera è come un paese. Forse il paese più territoriale che c’è, all’interno di quella città –fatta di tanti borghi che comunicano tra loro– che è Torino. E dentro Barriera ogni cosa è fuori dalle righe; dal caffè al bar, agli opening d’arte, fino all’acquisto del pane.