Barriera stories
Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle personeDi taralli e molto altro
di Paolo Morelli
Il tavolo della cucina era ricoperto di un particolare tipo di tovaglia, spessa e plastificata, che normalmente si usava per riparare la superficie. La chiamano «tela cerata», ma al paese si chiama «’ncerata». Mia nonna la teneva lì costantemente, ogni tanto la sbatteva, poi la rimetteva sul tavolo. Aveva dei disegni in rilievo, tanti esagoni concentrici che le donavano un aspetto moderno, anche se strideva con l’arredamento classico di casa sua. Qualcuno aveva ripassato alcuni contorni con la penna, lei, che iniziava a essere stanca, non aveva avuto voglia di arrabbiarsi. Era pomeriggio, il televisore acceso su una serie tv americana, dove «ci sta l’intreccio». La tela cerata si «vestì» di una tovaglietta e, da uno sportello della credenza, la nonna tirò fuori un sacchetto di carta. Dentro c’erano i taralli: grandi, abbrustoliti. La loro forma ovale, così regolare, veniva di tanto in tanto interrotta da piccole protuberanze, semi di finocchio che donavano sapore, «scrocchiavano» sotto i denti. Semi che non avrei mangiato mai, che detestavo e detesto anche nella salsiccia, sebbene qui, la salsiccia al finocchio, fosse una vera prelibatezza.
Quando i taralli finivano, mio padre andava a comprarli. Un po’ per pigrizia, un po’ per reale difficoltà di movimento, mia nonna lo lasciava andare. Impartiva ordini, dava indicazioni in dialetto che apparivano generiche ma che in realtà erano assai precise. Mio padre capiva, io intuivo, afferravo solo il nome di un panificio che faceva anche i taralli. Si chiamava Montepeloso ed era uno dei migliori, a Lucera, ma se oggi dovessi descriverlo non ne sarei in grado. Ne ricordo un altro, visto tuttavia da fuori, mentre ero in attesa in una di quelle vie strette che sembrano larghe, dove a Torino sarebbero a senso unico ma qui riescono a essere attraversate in entrambi i sensi da auto e furgoni. La via aveva il colore dell’estate, il marciapiede aveva la libertà delle vacanze, dall’anonima porta d’ingresso del panificio arrivava un profumo di pane misto a taralli. Mio padre riemerse da lì con un’espressione indecifrabile, con il viso «normale» di chi, ormai, non si meraviglia di ciò che è semplicemente un dato di fatto: i taralli. Scoprii che ne esistevano diversi tipi, non solo quelli grandi e bruniti che divorava mia nonna, ma anche piccoli, chiari, senza finocchietto.
I taralli sanno di Puglia e viaggi in autostrada, estati trascinate e tempo che non passa. Sono talvolta un passatempo, al pari di altri cibi da sgranocchiare, come i semi di zucca, che a Lucera si chiamano proprio «spassatimp». I taralli mi fanno pensare a mia nonna, ai miei genitori, a mio padre che li mangiava d’abitudine, a mia madre che provava a pronunciare qualche frase in dialetto pur avendone del tutto perso l’accento. Trovare i taralli a Torino non è difficile, ma trovare quei taralli invece sì. Forse perché erano talmente legati al concetto di «viaggio in Puglia» che nemmeno si aveva voglia di cercarli. Al punto che, a distanza di anni dall’ultima volta che avevo visto mia nonna mangiarli, avevo oramai smesso di pormi il problema. Anche perché sono buoni, molto buoni, ma per chi ha qualche problema con grano e grassi sono tutt’altro che un toccasana.
Il mercato di piazza Foroni era un susseguirsi di banchi che parevano abbracciare il quartiere: Barriera di Milano che si afffaccia su Aurora ma da qui continua a ribadire la propria supremazia territoriale. Barriera che accoglie, che più di altri quartieri mescola. In Barriera ci si perde e ci si ritrova, e se il perdersi genera sempre paura, la consapevolezza di ritrovarsi rende tutto più affascinate. Così tra i banchi di piazza Foroni ci siamo persi, qualche anno fa, dopo aver abbandonato Porta Palazzo per «provare» a fare la spesa qui. Siamo andati oltre, abbiamo superato i banchi per sbucare in una piazzetta disordinata, colma di cassette e rimasugli sparsi, annegata nel disordine tipico di fine mercato, quando i venditori sbaraccano. Una vetrina aveva attratto la nostra attenzione. Pacchi e pacchi di tarallini, che riuscii a identificare a distanza di decine di metri. Avere undici decimi di vista alle volte è utile. Entrammo e i tarallini svanirono tra bottiglie di olio e mosto di vino, dolci e tanti altri taralli. Ce n’erano di diverse cotture, più grandi, ovali, oblunghi, rotondi. Mentre mi perdevo in quel paradiso trovai anche i taralli bruniti al finocchietto. Ovviamente ne acquistammo un sacchetto e, appena usciti dal tarallificio, il Covo di piazza Cerignola, ne assaggiai subito uno. In un attimo tornai a Lucera, da piccolo, vidi mia nonna seduta al tavolo della cucina che guardava la tv, mio padre in cerca di un panificio, mia madre che mi accompagnava nella via dove era nata, le stradine che parevano disabitate ma brulicavano di vita, il piccolo stadio dove giocava la squadra di calcio locale e dietro al quale si trovava un panificio. In un attimo fu la collina, il castello, il Tavoliere. Era tutto lì, in una piazzetta di Barriera di Milano.