Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

Latis

di Cristina Talarico

 

La mia casa si trovava in via Viriglio quasi angolo via Cimarosa. Da bambina, negli anni ’80, il mio mondo girava tutto intorno a poche vie. Mia madre, quando avevo 8 anni, mi mandava a comprare il latte dalla lattaia al fondo della via. Era un grazioso negozio ad angolo con due entrate, una su via Viriglio e una su via Paganini, diventata poi a metà degli anni ’90 via Umberto Giordano. Rina e Mario, moglie e marito, insieme gestivano il negozio: lei bianca come il latte, compresi i capelli sebbene fosse ancora giovane, Il marito bello florido sempre in gilet e berretto nero. Per arrivare al loro negozio lo scotto era quello di passare accanto al vinaio, gestito anche questo da marito e moglie, e scampare alla rincorsa del loro cagnolino da guardia Latis, piccolo di taglia, bianco e nero, che presidiava lo scalino del negozio sempre pronto a rincorrere qualcuno specialmente noi bambini.

Tra il vinaio e la lattaia c’era ancora un negozio che faceva piccole riparazioni, e quando passavo di lì un saluto era d’obbligo a Milia e Mario. Con loro mi fermavo sempre volentieri a chiacchierare sedendomi sul gradino del negozio a una vetrina, oppure entrando a curiosare su quale oggetto stesse riparando Mario.

All’angolo opposto della lattaia, al pianterreno, abitava la signora Gulli. Adoravo passare sotto le sue finestre perché spesso dai vetri vedevo i suoi innumerevoli gatti che guardavano fuori, speravo sempre in un invito per andare a trovarla e giocare con loro.

I giardini di via Cimarosa erano i miei giardini. Il pomeriggio potevo scendere da sola e con attenzione attraversare la strada. Adoravo tutto di quel giardino, la staccionata che contornava il suo perimetro, i gradini in pietra per sedersi, le panchine alternate tra gli alberi. Il primo gioco che trovavi entrando era il girello, rigorosamente in ferro arrugginito, seguito poi da due coppie di altalene una di seguito all’altra, lo scivolo e per ultimo il dondolo. Il giardino era il punto di ritrovo della banda delle case del Toro, le case gialle slavato che tutt’ora fiancheggiano il giardino, trasformato dall’anno 2000 in un parcheggio sotterraneo. La banda sempre presente, ogni pomeriggio dava fastidio a noi bambini, ci prendevano il pallone e tre erano i dispetti che alternavano: tenersi la palla sotto il braccio, calciarla ripetutamente in alto fino a farla incastrare tra i rami, giocarci loro per quanto ne avevano voglia. In alternativa quindi giocavamo a guardie e ladri nascondendoci tra le macchine, correndo nella via interna del giardino che al fondo celava una piccola galleria pedonale con la quale spuntavamo in via Cruto, o giocando al muretto con bastoncini chiacchierando.

La mia scuola si trovava in via Paisiello, la “Giuseppe Perotti”. Per arrivarci seguivo via Viriglio in direzione oratorio, attraversavo una piccola strada, via Boito, dove all’angolo c’era una casa al piano terra con un bel roseto curato, spesso nel periodo di fioritura il proprietario di allora mi permetteva di scegliere una rosa da portare a casa. Proseguendo per la via girando a sinistra costeggiavo il muro della bocciofila e infine arrivavo all’entrata della scuola, che allora era anche l’oratorio femminile dove le bambine si fermavano nei locali al piano terra a fare laboratori come uncinetto, cucito, lavori manuali. Scendevo le scale di pietra, a lato c’era il cortile con i giochi in ferro, davanti un campo da basket in pietra e infine, delimitato da una cancellata, un enorme prato verde con due porte per giocare a calcio. Il portico che trovavo girando a destra aveva accanto la pista di pattinaggio.

La scuola elementare era al primo piano, la mia sezione era la C. La mia maestra Prato Bruna era buona, davvero una seconda mamma. Ci alzavamo per salutarla e in classe c’era un perfetto silenzio, con lei facevamo anche ginnastica nella palestra a pianterreno. Alla ricreazione ci veniva distribuita una bottiglietta di latte intero da un quarto di litro che adoravo, con due biscotti grandi o, in alternativa, un panino semidolce con uno yougurt. L’unico maestro che avevamo in tutta la scuola era quello di canto, con il quale imparavamo canzoni patriottiche come: Va’ pensiero, L’inno di Mameli, Il Piave mormorava o canzoni di folklore come La montanara e La gazza, o ancora canzoni internazionali come John Brown e Nel vento, ovviamente non in inglese ma in italiano.

Alle 12:30 la scuola finiva, la maestra ci accompagnava fino alle scale, ci dava la mano per salutarci e si correva a casa. La strada era breve e mentre tornavo da via Viriglio sapevo che mia mamma era al balcone ad aspettarmi, così come Latis che per quante volte al giorno mi vedesse, puntualmente, dal presidio del suo gradino, abbaiava verso di me rincorrendomi. La mia corsa finiva al grande portone giallo dove, sorridendo, mi infilavo velocemente nell’androne correndo su per tre piani. Questa era la mia Barriera di quei meravigliosi anni ’80.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini