Barriera stories
Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle personeL’identità di Barriera
di Patrizio Tosetto
Sotto casa passavano il 57 e il 57/: tutti e due facevano capolinea in corso Matteotti quasi angolo via XX settembre. In via Cherubini ci sono arrivato a tre anni e ci sono rimasto fino al ’94. Poi l’inevitabile fuga, non capendo più e decisamente non accettando ciò che stava succedendo e cosa è successo: degrado sociale, umano e, direi, intrinsecamente morale. Ma questa è un’altra storia.
Il 57 serviva per raggiungere il centro o per uscire dalla città. Il mio primo orizzonte fu piazza Crispi. Arrivarono poi le case del Toro (assicurazioni) e via Cherubini si allungò fin verso i binari della ferrovia. Poi arrivarono le case popolari di corso Taranto, fino in via Botticelli dove difesi con il sangue la mia bicicletta. Un certo Catranbone, per sfizio, voleva rubarmela. Per sfizio perché era proprio messa male. Dieci anni dopo leggemmo sulla Stampa, cronaca cittadina, che era morto durante una rapina in banca a mano armata. Sotto i ponti della ferrovia il primo e unico spinello nella mia vita. Qualche boccata e poi una irrefrenabile voglia di Buondì Motta. Dopo convenni che il fumo era una inutile e costosa perdita di tempo.
Erano però gli anni del basket e dello sport in generale. A 10 anni infatti ero stato decisamente grassotello ed il mitico Dottor Contiero aveva decretato che avessi bisogno di fare sport. Presto fatto: iscrizione alla Palestra Sempione, ginnastica artistica. Avevo pure conquistato delle medaglie alla Ginnastica in via Magenta. La mia specialità era il cavallo ma ero troppo alto per proseguire. In seconda media avevo cominciato a giocare a basket o per meglio dire pallacanestro: oratorio Michele Rua, Auxilium Basket Monterosa. Forse il più bel periodo della mia vita. Sicuramente il più spensierato. Le prime scarpe Superga comprate da Bacchetta in corso Giulio Cesare.
In Barriera c’era tutto: amici, primi amori e la scuola. Principessa di Piemonte per l’asilo, Gabelli per le elementari. Mia madre organizzò una raccolta firme per avere la maestra Bergoglio anche in terza. Si usava che le donne insegnanti erano solo abilitate fino alla seconda. Perché? Direi sessismo. Sta di fatto che vinse la battaglia.
Nel cortile della scuola c’erano ancora i fori delle pallottole. Nel ’45 furono giustiziati i repubblichini. Lo capii nel giugno del ’75, quando feci lo scrutatore per la prima e ultima vota.
Alle medie andai alla Baretti. Fu costruita in men che non si dica in prefabbricato, freddissimo in inverno e caldissimo in primavera, ma almeno c’era la palestra. E sempre lì, alla festa di fine anno, il primo amore, Lucia. Non l’avrei più rivista. E poi, finalmente anche in periferia, il liceo scientifico Albert Einstein Einstein. 1972.
Per arrivarci a piedi si costeggiava la Ceat. Da corso Novara arrivava uno strano profumo o, se volete, uno strano odore, misto tra i dolciumi della Wamar e le colate di gomma della Ceat. Mi sono talmente affezionato all’istituto che ci sono rimasto 6 anni ripetendo la maturità. Lo ammetto: non ero tanto solerte. Fui ammesso con 119 ore di assenza su 250. In compenso fui determinante per la vittoria di due tornei di basket. Maglia e calzoncini arancioni. Numero 15.
Facevo quella strada 4 o 6 volte al giorno: per andare al liceo e poi in tarda serata all’allenamento al Gesù Operaio. La palestra era proprio sotto la chiesa e ci sorbivamo tutti i rosari. Non che avessimo fede, ma non potevamo allenarci con il cotone nelle orecchie, non avremmo sentito le urla dell’allenatore.
Crescevamo come cresceva la città. In via Pacini, al posto di un campo di calcio, case popolari. Case di cooperative, insomma case per il popolo. L’archetipo di Barriera è popolare, di un popolo che voleva emanciparsi. I figli dovevano studiare, come dargli torto? E dovevano studiare oltre gli istituti professionali. Se si sceglieva il tecnico l’altro obiettivo era l’Università. Sapere, sapere e poi anche sapere: «Tu, caro figlio o cara figlia, non devi fare la mia vita». Come dargli torto?
Quante volte mio padre mi diceva: «Per fare la rivoluzione c’è sempre tempo. Laureati e poi vedrai». L’ho ascoltato a metà: ho studiato con tesi di laurea fatta e mancavano 4 esami. Quando si è giovani si è stupidi davvero.
Poi arrivarono le letture di Maksim Gorkj, le mie Università. E si ebbe anche una giustificazione, diciamo così, di carattere ideologico. Le strade del quartiere battute palmo a palmo, parlando, sorridendo e scherzando. Ci bastava poco per crescere. O andare nelle piole, come in via Baltea, piene di fumo e di un vino così così. Con le immancabili uova sode e le acciughe al verde.
Mamma mia quanti ricordi. Tutti positivi? Sicuramente no, ma vincono sempre i bei ricordi; dobbiamo pur preservarci. Allora c’era identità e non è poco. Un’identità magari caotica e per certi versi contraddittoria, pur sempre un’identità collettiva. Egualitarismo? Almeno un tentativo. Non mi stancherò mai di dire che si campava meglio in quei ruggenti anni in Barriera di Milano. Almeno i nostri ricordi non possono portarceli via.