Barriera stories
Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle personeAncora
di Ermanno Cottini
Un avverbio risorge dalla memoria della fanciullezza: «Ancoa, ancoa!». Lo pronunciavo mentre, sospeso da terra, appollaiato sul braccio della mamma, volteggiavo con lei sulle note di una canzone di Giorgio Consolini; non volevo più smettere. La vecchia radio a valvole costituiva l’unica fonte di divertimento domestico all’esordio degli anni ’60 in quella casa di Largo Sempione con affaccio su quello che si poteva ritenere il “Central Park” della Barriera di Milano.
Il primo apparecchio a transistor lo tenni tra le mani qualche anno dopo, si trattava di un ‘bottino di guerra’, il souvenir portato a casa da mio fratello Dino dopo il congedo dal servizio militare in Marina. Faceva ritorno da La Spezia, nel cui porto militare era vivace lo scambio di novità tecnologiche importate da Stati Uniti ed Estremo Oriente. Quella piccola radio portatile che stava in una mano, made in Japan, accompagnò insieme al pallone le passeggiate domenicali con papà Alberto verso la Piscina Sempione e il suo parco, diffondendo le radiocronache di Nicolò Carosio su Tutto il calcio minuto per minuto. La concitazione nella voce del commentatore, coincidente con ogni azione da goal, mi induceva alla immediata sua trasposizione sul prato che calpestavo rinvigorendo i miei quadricipiti e con essi il fervore nel palleggio, che esitava in un tiro carico di velleità realizzative all’indirizzo di una porta, ahimè, sguarnita. Il roboante clamore della folla esultante sugli spalti diventava tangibile: il tatto ne percepiva la forza grazie alle vibrazioni del piccolo altoparlante forellato, acquisendo visibilità sullo schermo della fervida fantasia propria della mia verde età.
A quel tempo il cosiddetto “trincerone” era ancora in vita; con assoluta regolarità uno sbuffante treno merci lo percorreva preceduto dall’inconfondibile fischio della locomotiva a vapore. Quelle uscite domenicali erano un evento per noi ragazzini del quartiere, abituati ai giardinetti sottocasa. Era una sorta di trasferta; si valicava il “tricerone” quasi fosse un Rubicone ferrato con i suoi ponti regolarmente distanziati. La trasferta diveniva più ardita, acquisendo caratteristiche esotiche, quando si approdava alle “Basse di Stura”, una zona ricca di prati e di canneti che costituiva il paludoso alveo della Stura non ancora violentato dal cancro della cementificazione. L’unica metastasi, peraltro oggi ancora presente come rudere, era la costruzione che ospitava i mezzi meccanici adibiti al dragaggio del fiume. Oggi, quel rudere caratterizza misteriosamente lo skyline dei quartieri Barca e Barriera di Milano lungo il loro confine, una sorta di gigantesco “Dente cariato”, vagamente e romanticamente assimilabile al fratello più blasonato di Berlino. «Ma è ancora lì?» mi chiedo ogni volta che lo scorgo da lontano, nutrendo in realtà un intimo, segreto compiacimento, riconoscendogli il ruolo di monumento alla memoria della mia infanzia.
«Ancora? Ancora il giornale? Ancora il solitario?» era la domanda che formulavo, sempre tra me e me, in attesa che il babbo partecipasse al gioco e mi rinviasse la palla o collaborasse con me al recupero dell’aeroplanino che scagliavo in cielo con una fionda e che, preda delle capricciose correnti ascensionali, riusciva sempre ad atterrare in un punto non preventivato e scomodissimo da raggiungere. Finii per perderlo.
«Ne vorrei ancora!» esclamavo spesso, a tavola, dove non mi mancava mai l’appetito e l’abilità culinaria della mamma lo rinvigoriva più che mai.
«Bellissima! Ancora una, ti prego!» era la mia esortazione rivolta allo zio Antonio quando, nostro ospite, rallegrava il tran-tran familiare con le sue spassosissime barzellette in dialetto veneto.
«Ancora tu… Ma non dovevamo vederci più? Ancora tu, non mi sorprende lo sai?» quel ritornello ci frullava nella mente al ritorno da scuola, quando ci si affrettava a raggiungere casa per poterci sintonizzare su radio due e ascoltare Hit parade, il programma di Lelio Luttazzi con la classifica dei 45 giri più venduti.
«No! No! Noo! Ancora riso?» avrà esclamato più volte il babbo durante il servizio militare in Africa, stando ai suoi scarni racconti riproposti a giustificare l’avversione per quel cereale che durò tutta la vita e che, per una persona come lui, originaria del vercellese, sembrava un tantino stravagante.
«Provaci ancora Sam» il titolo del film di Woody Allen diventato un cult in quegli anni di cineforum trascorsi all’oratorio salesiano Michele Rua, uno dei fiori all’occhiello della Barriera di Milano. «Ancora lì? Anche stasera… Ancora! Che fai luna in cielo?» esclamavo una sera pervaso dalla malinconia, con il naso all’insù, mosso dal disappunto per una serata di calma piatta in Barriera, uguale a tante altre, senza prospettive. Non ti volti mai, luna? Ostenti sempre la stessa faccia, con al centro il “Mare della Tranquillità” che nel luglio del ‘69 accolse l’Apollo 11 facendomi trascorrere la mia prima notte bianca, una notte di luna piena e piena di luna».
«Andate ancora avanti, svoltate a destra, poi ancora a destra, poi sempre dritto, ancora per circa un chilometro… A un certo punto sarà il profumo di pizza e farinata a guidarvi e accanto al cinema Sociale troverete il mitico locale della pizza al padellino e della farinata più buona della Barriera!» Questa era l’indicazione che davo ai nuovi compagni di scuola che approdavano nel quartiere da altri lidi.
«Licia non si è ancora ritirata!» rispondeva al telefono con marcato accento siciliano la signora Anna, alla mia richiesta di passarmi la figlia, compagna di studi alla facoltà di Medicina. Abitava in corso Vercelli e, insieme con l’amico Claudio, prendevamo tutti e tre il 15 al capolinea di via Lauro Rossi alle 6,30 del mattino. Quel capolinea del tram ospitava anche la linea 3 e la 10 per altrettante evasioni dalla Barriera. Il 15 portava al Lingotto. Noi studenti del primo anno di medicina facevamo la coda nel cortile dell’ateneo, arrivando alle sette del mattino in via Pietro Giuria, quando d’inverno era ancora buio, per riuscire a occupare un posto nella prima fila dell’aula magna di anatomia, alle otto, quando iniziava la lezione del grande, inimitabile e compianto professor Filogamo, il fratello del più celebre Nunzio.
Quel corso lo frequentammo con assiduità, a costo di doverci alzare alle 6 e farci un’ora di coda, pur di non perderci le sue lezioni magistrali che traducevano un’ostica e mnemonica materia in leggiadra e raffinata rappresentazione spaziale di organi toracici dalle forme curiose di solidi sinuosi, avvinghiati all’interno del mediastino in un abbraccio degno dei gruppi scultorei ospitati nella loggia dei Lanzi a Firenze, del Laocoonte nei musei vaticani, dell’Apollo e Dafne alla galleria Borghese.
Sono passati tanti anni, ma il mio destino professionale è ancora qui, ‘ancorato’ alla Barriera. Mi trovo nel mio studio medico di via Mercadante, all’angolo di Largo Sempione; l’orario di accesso volge al termine, e con esso la mia giornata; chiedo al paziente con cui sto per accomiatarmi: «Quante persone ci sono ancora in sala d’aspetto?» «Ancora tre in possesso del numero, dottore; poi c’è una coppia di anziani giunta in ritardo; sono molto simpatici e poco fa raccontavano di conoscerla fin da bambino; gli altri tre non volendo essere da meno citavano alcuni aneddoti con la sua mamma come protagonista. Tutti e cinque pare si conoscano molto bene».
L’ultima frase viene scandita mentre siamo già entrambi sulla soglia cosicché ho modo di scorgere la sala d’attesa rendendola partecipe della conversazione: «Per forza che si conoscono molto bene, hanno gestito tre negozi mitici in Barriera; il mio sostentamento è passato dalle loro mani in quelle di mia mamma per l’elaborazione finale! Sono i signori Vacis, i verdurieri del negozio omonimo di via Monte Rosa angolo via Spontini; il signore Achille, marito di Maria, la marghera, la compianta lattaia della piazza a cento metri da qui, e le sorelle Lovera, le due anziane signorine abitanti in via Monte Rosa dinanzi all’edicola, nonché sorelle di Vigiu, el maslè di via Spontini, quello che simpaticamente diventava complice della mamma ogni volta che ordinava le fettine di carne da fare impanata alla milanese e, conoscendo il suo desiderio di ottenere un taglio sottilissimo, preveniva la sua scontata obiezione con una frase in dialetto piemontese e un gesto eloquente: ‘Madamin Cottini, ca guarda: pi sotil che parei as peul nen, as ved fi-na Superga!’ sollevando una larga fetta di sanato a orecchia d’elefante in controluce verso la vetrina che affacciava sul versante della via da cui, in mancanza dei condomini multipiano costruiti negli anni ‘70 , ancora si scorgeva l’omonima basilica».
«Dottore, abbiamo tutti nostalgia della sua mamma, delle poesie che ci recitava e delle canzoni che ci cantava in negozio! Che bei tempi! La Barriera era un paesone, ci si conosceva un po’ tutti e, nel limite del possibile, ci si aiutava!». Così, mentre estraggo dallo schedario la loro cartella clinica, ancora cartacea in quei tardi anni Ottanta, proseguo: «Una volta eravate voi a marcare il conto giornaliero della spesa sul quaderno, in vista del saldo a fine mese, mentre ora tocca a me segnare la pressione, i malanni lamentati oggi e le medicine prescritte».
La cosa che ci accomuna, ora come allora, è la frase conclusiva, sempre la stessa: «Basta parei? L’eve da-manca d’aut?» accompagnata sempre da un sorriso affabile in grado di abbattere ogni barriera: si tratta dell’inconfondibile sorriso di Barriera, un bene prezioso da salvaguardare come si fa con le barriere coralline.