Barriera stories
Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone4 settembre 1997
di Orges Musabelliu
All’uscita di via Nizza, in mezzo a tanti colori di vita, iniziò il mio viaggio da studente in un paese straniero. Dopo un breve e intenso periodo al Sermig finii quasi per caso al comprensorio popolare di via Cruto. In realtà, era l’unica occasione di una casa in affitto offerta a quattro studenti albanesi. Occasione per modo di dire perché un milione di lire al mese per due camere e cucinino era un prezzo ben che lauto! All’università perfino chi arrivava da Ivrea rimaneva stupito quando nominavo la zona dove abitavo. E io non riuscivo a capire il perché… a dir la verità, dopo ventiquattro anni non l’ho ancora capito. La vicina di fronte, una signora intorno ai sessant’anni – dopo averci conosciuti – quasi tutte le domeniche ci offriva la pasta, come si faceva nel suo paese al sud. Il portinaio con una gentilezza unica ci chiamava tutte le volte che arrivavano lettere. In pratica ci sembrava di vivere in un piccolo paese, dove tutti si conoscono e si rispettano.
Fu proprio il portinaio, durante le nostre chiacchierate sulle difficoltà quotidiane, a consigliarci di andare all’oratorio Michele Rua il sabato mattina perché davano i pacchi alimentari gratis. Una volta lì, vedendo le persone che aspettavano, due di noi quattro se ne andarono: l’elemosina non faceva per loro. Io e il mio compagno di stanza invece vincemmo l’imbarazzo e al nostro turno salimmo al primo piano. Lì ci accolsero i due volontari che sembravano usciti da un libro di Victor Hugo (Claudio e Cesare). Il primo talmente serio che quasi ti faceva togliere la parola, l’altro sorridente e sempre parlante. Capendo che eravamo stranieri ci chiesero se mangiassimo la mortadella. Mi girai quasi stupito dal mio amico e con le facce sbalordite rispondemmo di sì. Solo tempo dopo chiesi a Claudio del perché di quella domanda. La risposta fu ancora più toccante: conoscendo che c’è una maggioranza musulmana negli albanesi, si sono preoccupati di non offendere la fede. Ritornammo ancora e non più solo per i viveri. L’oratorio divenne un punto fisso. Don Alberto ci inserì nel gruppo giovani e piano piano iniziammo a far parte di quella grande famiglia… e poco importava se fossi credente o no.
Passai gli anni degli studi all’università all’interno dell’oratorio e del cine teatro Monterosa conoscendo persone e amici fraterni che ancora oggi fanno parte della mia vita. Vedere generazioni di nonni, figli e nipoti stare insieme e condividere momenti di vita quotidiana all’interno di quel cortile era (ed è tuttora) una cosa meravigliosa e unica. Qui si respira un’aria diversa e non potevo che scegliere questo posto per vivere, mettere su famiglia e crescere i figli.
Ci sentiamo parte di una grande famiglia, apprezzati per quello che si è, senza distinzioni di provenienza o di religione. Questo è il Michele Rua, questa è Borgata Monterosa.