Vanessa Roghi

Piccola città. Una storia comune di eroina

Laterza

Piccola città di Vanessa Roghi è un libro che mi ha molto colpito, a differenza di quasi tutti quelli scritti da cosiddetti “esperti” di droghe e dipendenze. Innanzitutto perché Vanessa ha avuto il coraggio di esplorare una regione dove la ricostruzione storiografica s’intreccia alla memoria privata, il passato “stabilito” con quello instabile e incandescente che non passa mai del tutto, sempre in agguato dietro a ricordi, emozioni e dubbi. Passato che non appartiene al tempo cronologico ma a quello verticale, tempo che scandisce il ritmo delle nostre vite e ne segna le svolte cruciali. 

Se un testo – saggio o romanzo che sia – non mi restituisce il battito irregolare di quel tempo è ai miei sensi, prima che al mio giudizio, del tutto privo d’interesse: in “Piccola città” quel battito è presente in ogni pagina. Caratteristica che si riconosce anche dalla qualità della scrittura: consistente e insieme lieve. Attributi rari in letteratura e rarissimi nei libri di storia, dove domina la gravitas e con essa la sgradevole sensazione che un particolare tratto di storia sia stato come rivisto e corretto all’origine, depurato dal contraddittorio e dall’ambiguo che innerva ogni esistenza umana. 

In secondo luogo il libro di Vanessa Roghi mi ha colpito perché tratta di una questione che conosco per esperienza diretta, il che mi permette di riconoscere, quando se ne parla o scrive, ridondanze, ignoranze o semplificazioni. 

Si dirà che Vanessa partiva per così dire avvantaggiata, avendola vissuta a sua volta sulla pelle attraverso la vicenda del padre, ma questo dice poco: ho letto diverse testimonianze di famigliari di tossicomani ma, con tutto il rispetto per le loro sofferenze, non ho mai trovato testi capaci di gettare uno sguardo sul nucleo incandescente della questione droga, nucleo che nemmeno colgono quei testi di psicologia o sociologia che riconducono la tossicomania a traumi interiori o a un più generico “disagio” sociale. Laddove essa chiama in causa la perdita costitutiva che segna ogni nascita in quanto strappo dalla vita prenatale, di cui non a caso la droga – e l’eroina/grembo in particolare – riproduce per qualche ora l’imperturbabile beatitudine. La droga è quindi questione ontologica prima che psicologica: riguarda il terrore e poi  la ricerca di felicità che segna il nostro ingresso nel mondo. Ricerca di felicità che diventa ricerca di conoscenza quando riconosciamo la felicità come inatteso incidente sulla strada della conoscenza. 

Antonin Artaud scrisse che chi prende droghe è “poeta del suo Io in vita”. 

Ecco, Piccola città è un libro intenso e profondo anche perché c’è tensione poetica nella scrittura di Vanessa Roghi, nel suo inquieto cercare e domandare, privo della gravitas di chi, pedissequo interprete d’inossidabili canoni, ha smesso di cercare presumendo di aver trovato.
(di 
Fabio Cantelli Anibaldi)

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