Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personeCappotti rossi
di Cristina Maria Petrini
Andavamo a Porta Palazzo dalla periferia. Era un viaggio e lo si faceva di sabato, d’autunno o d’inverno, avvolti nei paltò. Al mercato grande comperavamo la frutta che si manteneva: i carpendù (la renetta) e i portigal (le arance) preferite se rosse e succose per farne spremute. A Porta Pila la frutta non si comperava al chilo ma al platò (cassetta) e contrattando, cioè assicurandosi la qualità (presumibilmente migliore) al minor prezzo e cercando di non farsi fregare, eventualità non del tutto remota. Era risaputo. Andavamo con l’auto unica, la Cinquecento che era poi diventata la 127. Una famiglia un’auto. E poi per portare le cassette servivano più braccia e guanti di lanetta nelle mani, per non congelarsele. Gli acquisti erano ponderati: solo poco prima di andar via mio padre chiudeva l’affare al banco considerato più conveniente e soltanto allora ci si caricava delle cassette per portarle all’auto che aveva fatto fatica a trovare il suo posto prossimo onesto sicuro. Anche questo era risaputo. In auto non mancava perciò l’antifurto: aggeggio contundente con la forma di lungo gancio che univa il pedale del freno al volante, regolabile in lunghezza e fermato a chiave, con una serratura.
Andavamo anche per la verdura e le acciughe, soprattutto se era maturata l’idea di fare la bagna càuda. A Porta Pila abbondavano i banchi dei pizzicagnoli e se l’occhio era attento le acciughe per la bagna o per il bagnet verd da accompagnare al bollito di carne si trovavano buone assai, come sapeva spiegare il compare siciliano che ne teneva di diverse qualità: piccole e grandi più o meno asciugate dal sale. In odore di bagna càuda la domenica, la cassetta si riempiva delle verdure necessarie: ciapi’abò (tupinamboli), cardo gobbo, i povron (peperoni), questa volta non bagnà ant’ l’euli, ma ant’tla bagna, e le cipolle con le barbabietole cotte al forno, il cavolo (còj) e l’aglio (aj) come da ricetta che prevede una testa d’aglio a persona, una per commensale, come base di partenza. E per i giorni a venire: auguri! Ormai risaputo. Non si passa indenni a un incontro del genere. Oggi, potrebbero venire in aiuto un paio di giorni di smart working, ma allora era necessario assumersi tutti i rischi. Uno di questi poteva essere, per mio padre, la vendetta del collega fumatore che avrebbe preteso la finestra aperta finché i vapori non sarebbero rientrati nella norma, cioè tre giorni dopo. Ognuno ha i suoi vapori e le sue vendette.
Ci si perdeva sotto i portici nelle due braccia che da corso Regina Margherita confluivano in via Milano dinanzi alle vetrine dei singolari bazar che vendevano scarpe, borse e cuoiame, coltelli di ogni genere, lane in gran formato, non solo gomitoli, ma matasse di peso, di tutti i colori. Su questi ultimi era mia madre a non resistere all’acquisto e lei di lana ne lavorava molta. E poi i negozi di abbigliamento di biciclette e di ricambi di ogni genere. Di caffè ce n’erano, non tanti come ora. Poi c’erano i cosiddetti locali ‘dla grata (del furto e del riciclaggio), mio padre non mancava di farceli notare, normalmente accompagnati da drappelli di persone radunate all’esterno come succedeva davanti al banchetto di chi invitava chiunque a scommettere al gioco delle tre carte o delle tre campanelle. Veri e finti avventori radunati e il pollo prima o poi si trovava. C’è chi così si faceva la giornata e chi si grattava la crapa che non per forza doveva essere pelata.
Il sabato di Porta Pila poteva essere uno di quei giorni grigi forieri di pioggia oppure di nebbia spessa (da tajé con ël cotél) che rendeva indecifrabili le figure in lontananza, umidi di quell’umidità che entrava nelle ossa che per boschi avremmo raccolto le famióle (famigliole) a ridosso dei ceppi di gasìa (acacia). Ma anche quella giornata invernale di sole che non riusciva a scaldare l’aria lasciando la galaverna (brina) negli angoli a nord. Impossibile da dimenticare per la temperatura raggiunta dalle punte di piedi e mani rimasta costante e vicina a quelle delle strade, giusto di qualche grado sopra lo zero, con pressoché inutili tentativi di riattivazione della circolazione avvenuti sbattendo i piedi al suolo e le mani tra loro. E non c’era scarpa invernale o guanto che funzionasse, se non intraprendere una corsa fino alle antiche porte di Augusta Taurinorum, facilitati dalla lieve discesa, per poi passarci sotto e rendersi conto di quanta storia in quel punto preciso, sopra la testa, in mattoni rossi pieni di fornace, vivesse. Più semplice entrare in un caffè, ma molto meno avventuroso.
I cappottini rossi comperati a Porta Palazzo erano diventati corti dopo qualche anno, si erano tramutati in giacche longuette ma essendo di lana buona e spessa e accollati facevano ancora la loro discreta figura e compivano il loro ruolo. Mio padre decise che era venuto il momento di cambiarli. Oltrepassammo la Doira (la Dora) per raggiungere il negozio che si trovava poco oltre il fiume. Ci furono due cappotti nuovi per noi, uno di quei sabati: il Loden grigio con la lunga unica piega dietro, per me, e un Montgomery verde scuro con alamari di legno per mio fratello. Il cappotto nuovo era la gioia grande e si teneva addosso subito. Nella grande busta di plastica che accompagnava l’acquisto ci finirono i cappottini rossi, compagni nei lunghi inverni torinesi. Risalendo verso il borgo ci eravamo leggermente spostati per raggiungere l’automobile. Mia madre volle allora passare alla Consolata. Non poteva perdere quell’occasione. Vi entrò rapida come sempre faceva, per la libera preghiera. I nostri cappottini rossi restarono a una donna poco fuori la grande chiesa.