Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personeLo spirito di Pòrta Pila
di Davide Gambaretto
“Al mercato di Porta Palazzo fanno la fila, fanno la fila,
le femmine da ragazzo fanno la fila, fanno l’andazzo
E sopra il molo del caricamento fanno la coda, fanno la coda
gli uomini da bastone fanno la coda sul cemento”
“Al mercato di Porta Palazzo”, Da questa parte del mare, Gianmaria Testa (Radiofandango, 2006).
Ripenso spesso a queste strofe di Gianmaria Testa. Sono anacronistiche, ma mi sembra catturino, meglio di altre riflessioni, lo spirito di Porta Palazzo, del suo mercato, dei suoi abitanti… e io dovrei saperne qualcosa; dopotutto sto qui a Pòrta Pila da quasi 200 anni.
Mi hanno tirato su in fretta e furia nel 1836, a me e al padiglione mio gemello, dall’altro lato della piazza. A causa di un’epidemia di colera, per mettere i banchi del mercato serviva più spazio (nel 1935, da piazza delle Erbe il mercato fu spostato dov’è oggi). Più distanziamento sociale, come sento dire di questi tempi. Ecco, dopo qualche mese, si decise che c’era bisogno di noi per riparare la gente dalla pioggia, ma pare che più che per i venditori, noi eravamo lì a proteggere gli acquirenti, quelli che “al mercato di Porta Palazzo fanno la fila”.
Sono stato un testimone silenzioso di questa piazza. Ricordo che non avevo neppure vent’anni, quando ho sentito un rombo tremendo e visto il fumo salire, in direzione Borgo Dora, dove si trovavano la Fabbrica delle Polveri e la Raffineria dei Nitri (il 26 aprile 1852, una scintilla provocò un incendio e un’esplosione). Più o meno dove, decenni più tardi, avrebbe svettato l’aerostato che avrebbe dominato la città dal 2012 al 2019. A inizio secolo scorso, vidi tale Bibiana Bussone cercare soddisfazione nei confronti di un amante infedele, sparandogli alle spalle. Tutt’intorno la gente urlava “Gildo!”. Mesi dopo, sentii dire che Gildo era sopravvissuto, ma questo non evitò a Bibiana di finire in carcere. Era il febbraio del 1902, lei esplose quattro colpi di rivoltella alle spalle del suo ex amante Ermenegildo Canuto, reo di averla sedotta, messa incinta e abbandonata. La donna, che aveva anche perso il bambino, fu processata, ma le attenuanti e le molte testimonianze in suo favore – oltre al fatto che Canuto sopravvisse alla sparatoria – fecero sì che fosse condannata solo a qualche mese di carcere.
Ho temuto per la mia struttura, quando nel 1910, un enorme incendio divampò tra i banchi del mercato. Il fumo nero questa volta era molto più vicino, troppo vicino, rispetto a quello che avevo visto anni prima. Dopo che l’incendio fu domato, sentii commentare che la colpa era stata di un fornello a gas usato da un commerciante, ma la spiegazione che ancora oggi sta nel cuore dei torinesi è quella del treno per Leinì. Riuscii ad ascoltare la storia completa solo anni dopo, dalla bocca di Gipo Farassino, cantante torinese che del mercato era assiduo frequentatore: le scintille, provocate dall’avanzata del treno, avevano incendiato alcuni banchi del mercato, provocando l’incendio (ne parlò ne ‘L trenin ‘d Leinì, monologo tratto dallo spettacolo “Gipo a sò Piemont – Vol. 2” nel 1971).
Incidenti ne ho visti, com’è normale in un crocevia di mutamenti e commercio, ma ho assistito anche a eventi unici: concorsi per eleggere la Regina ad’ Porta Palass (da inizio ‘900 al 1975, ufficioamente fino al 1983), chef stellati che cucinano per i più poveri, come ha detto Davide Scabin durante la Giornata nazionale contro lo spreco alimentare nel 2020, leggendarie partite di briscola tra autoctoni e migranti, l’accensione della fiamma paralimpica nel marzo 2006.
E, poi, gli artisti di strada. Uno di loro, soprattutto, mi sta a cuore. Si faceva chiamare Maciste e sollevava le lose, le pietre usate per la pavimentazione di molte strade della città. Era un gigante che arrivava dalla Sicilia; uno spirito libero a cui proprio non andava di stare al servizio di altri. Con la sua forza si reinventò eroe di Pòrta Pila, alzando da terra le lose e tenendole con una sola mano come fosse il cameriere di una piola. Si chiamava Gioacchino Marletta, detto Maurizio, nacque a Catania nel 1935 e si trasferì a Torino durante la metà degli anni ’60. Lavorava al mercato prima di iniziare a esibirsi assieme ai saltimbanchi che popolavano la piazza la domenica, con il nome d’arte di Maciste. Morì nel 2001 e oggi riposa al cimitero monumentale, dove una targa lo riconosce come personaggio storico della città.
In questi 185 anni tanto è cambiato; nuovi edifici, nuovi abitanti, nuovi prodotti. Perfino il nome. Piazza Vittoria, poi piazza Emanuele Filiberto, infine Piazza della Repubblica… tanto, per i locali, questa è sempre stata Pòrta Pila, perché qui, a fine giornata, si giocava a pila o croce (testa o croce). Ho sentito che siamo diventati il mercato all’aperto più grande d’Europa, di sicuro siamo uno dei più multietnici: qui si incontrano nord e sud; Europa, Africa e Asia.
Girando tra i banchi, oggi è più difficile sentir parlare piemontese. Molto più semplice sentire l’arabo, il romeno, un poco di cinese e un patois torinese che mescola italiano e inflessioni cittadine a parlate pugliesi, siciliane o calabresi. Lo specchio di un’integrazione affascinante – magari non sempre armoniosa, com’è nella natura dei luoghi “di frontiera” – dove le tradizioni si mescolano, dando e prendendo il meglio di ognuno, senza campanilismi.
“Al mercato di Porta Palazzo fanno la fila, fanno la fila”.
“Prezzemolo e coriandolo!” urlano i nordafricani, strategicamente appostati nei luoghi di passaggio più trafficati. “Avocado siciliani!” si sente controbattere tra i banchi all’aperto. Ogni tanto, chi fa spese nel nuovo Mercato Centrale, guarda con curiosità – e una punta d’inquietudine – quel turbinio caotico fatto di compravendita che si sviluppa a centro piazza.
“Al mercato di Porta Palazzo fanno la fila, fanno l’andazzo”.
Dal mio palco privilegiato continuo a essere testimone silenzioso; i colori della frutta e dei tessuti, l’odore delle spezie che viene trasportato dal vento, le urla dei commercianti che cercano di sovrastare il rumore del tram che passa. Vedo atti di gentilezza, contrapposti a momenti di animosità. Una signora, forse straniera, scorge una bimba che piange. Le prende la mano, sembra rassicurarla e, con fare deciso, la porta dal poliziotto più vicino. Poco lontano un paio di venditori scatenano una rissa, forse per il prezzo delle scarpe. Uno dei due estrae un coltello e, purtroppo, la storia di Bibiana e Gildo si ripete, solo che questa volta finirà peggio.
“Dalla coda del caricamento qualcuno grida, qualcuno grida, sulla piazza di Porta Palazzo fra le ragazze si rompe la fila”.
L’orologio dell’Antica Tettoia, mia sorella più giovane, mi guarda dall’altro lato del corso. Sembra battermi il tempo, ma io resto qui, finché non decideranno che sono da tirar giù. Fino a quel momento continuerò a essere la memoria del borgo di Porta Palazzo, del mercato di Piazza della Repubblica e di quella Pòrta Pila che gli abitanti di Torino, anche quelli che qui ci sono stati solo per un giorno, portano nel cuore.