Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personePòrta Pila
di Ettore Bianco
Negli anni Cinquanta e primissimi anni Sessanta del secolo scorso, la zona di Porta Palazzo era ancora la Pòrta Pila che Farassino ricordava agli inizi del decennio successivo.
Era il borgo in cui convivevano poche case borghesi con riscaldamento ed ascensore (“serà su” dicevano i torinesi) e tante case di ringhiera. Nel Balon l’Arsenale non era ancora “della Pace”, all’angolo tra corso Giulio Cesare e lungo Dora Firenze un lungo e alto fabbricato industriale conteneva la fabbrica di cioccolato Chiambretto. Sull’altro lato dello stesso isolato su via Aosta era ancora attiva una altra fabbrica di cioccolato, la Tobler. Una imponente centrale elettrica, in via Bologna, produceva energia per gli abitanti ma soprattutto per le tante industrie della zona. A intervalli il trenino, che portava materiali all’area ora Italgas, passava da via Aosta al lungo Dora Savona attraversando il ponte sulla Dora. Il lungo Dora Savona era percorso da moltissimi autobus che, dalla stazione poco più avanti, portavano i pendolari verso i paesi e le vallate circostanti (Lanzo, Canavese, Venaria, Settimo…). La lingua unica del borgo era il dialetto.
I primi immigrati dal sud apparivano e, non parlando altro che il loro dialetto con cultura ed abitudini diverse dai torinesi “per bene”, erano, se non emarginati, sicuramente sopportati e compatiti.
Un bambino viveva in una casa di ringhiera della via che anticamente si chiamava “Delle Fucine” e che ad inizio secolo scorso era stata ribattezzata pomposamente in “San Giovanni Battista de la Salle”, all’angolo con il lungo Dora Savona. Con altri bambini viveva i riti delle case di ringhiera come giocare a “figu” contro i muri della scala o del cortile, scendere in cortile per seguire i lavori di materassai e arrotini che vi istituivano officine provvisorie richiamando con urla l’attenzione degli abitanti per offrir le loro prestazioni, accompagnare i suonatori di chitarra o fisarmonica nel cortile raccogliendo con loro le monete che dalle ringhiere venivano gettate dagli abitanti, giocare a “stermese” lungo le scale e nelle soffitte. I più ardimentosi, non lui, si spingevano a scivolare, con attrezzi di fortuna, lungo le rive della Dora frenando sul finale per non cadere in acqua.
Lui frequentava prima l’asilo delle suore di via Alessandria (forse il “Principe di Napoli”) poi la scuola elementare Vittorio Amedeo II, dei fratelli delle Scuole Cristiane, su via La Salle. Con i suoi compagni di scuola frequentava la parrocchia di San Gioacchino alla domenica. Tutti si trovavano a scuola e poi in gruppo, scortati dal maestro, raggiungevano la chiesa occupando file ravvicinate ma separate dai bambini dell’oratorio. Tutti cattolici, ma senza mescolanze. All’uscita o entrata a scuola gruppi di ragazzini sciamavano insieme verso le rispettive case, schiamazzando. Da soli rigorosamente a piedi e portando le cartelle.
Uno dei compiti del bambino era quello di andare a comprare il ghiaccio, nella fabbrica del ghiaccio sempre sulla stessa via all’angolo con via Noè, per alimentare la “giasera” (la nonna del frigorifero) della nonna sua.
Con tutta la via, il bambino condivideva la vita di Simun il barbone del borgo che aveva alloggio sul retro dell’abside della chiesa succitata. Tra le mura parrocchiali e la recinzione metallica che delimitava il marciapiede aveva sistemato il suo pagliericcio e le ceste in cui conservava i suoi averi. Vero e proprio spazio pubblico a uso privato (precursore delle occupazioni). Durante il giorno Simun si spostava nel borgo trascinando uno spago legato a una cassetta di legno in cui riponeva ciò che, di volta in volta, trovava e lo interessava, da aggiungere ai suoi averi. Al mercato di Porta Palazzo qualcuno gli dava del cibo; il panettiere della via gli dava il pane avanzato del giorno; l’osteria all’angolo di via Cignaroli ogni tanto un bicchiere di vino. Il bambino non ha mai visto o sentito parlare di dispetti, pestaggi, distruzioni di giaciglio fatte a Simun.
Ancor oggi sul retro del batacchio di un vecchio pendolo di casa mia è vergato a mano “Bianco – Via delle Fucine 16”.