Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personePlatò
di Giorgio Finello
La stavo aspettando nel parcheggio vicino alle Porte Palatine, dove si lascia la macchina quando si va all’Ufficio Passaporti. Lei arrivò danzando sulle sue lunghe gambe e mi trovò intento a osservare l’oggetto di cartone che tenevo in mano.
– Cos’è quella roba?
– Questa roba è un platò.
– Platò… una parola francese? A me avete insegnato che si chiama cassetta.
– Cassetta è tante cose, questo è un platò. Da noi si dice ‘n platò ‘d persi, ‘n platò ‘d pum.
– Ah, una nuova lingua … E allora, sentiamo, cosa fai con il tuo platò vuoto?
– Non lo so ancora, però mi spiace che finiscano tutti nella spazzatura. Hanno dei disegni così belli, guarda, questi cetrioli sembrano ancora vivi. E poi sono platò robusti, possiamo usarli come contenitori per i libri, le pentole, i calzini.
L’avevo incontrata ai corsi per stranieri della scuola Parini di corso Giulio Cesare. Lei brillante studentessa, io volontario improvvisato che affiancava i casi più difficili, come il muratore cinquantenne che faticava a tenere la matita tra le dita callose e scriveva gigantesche lettere dell’alfabeto. Bastò rivolgerle qualche stupida frase carioca, imparata durante un viaggio di conoscenza in Brasile, e fu subito amicizia. Mi disse di chiamarla Canela, nessuno usava il suo vero nome. Io le canticchiai una canzone di Antoine dedicata a una ragazza con la pelle ambrata come la sua. Non la conosceva però le fece piacere.
E così ci mettemmo alla ricerca di platò artistici. Dovevamo agire nel pomeriggio, quando il grande mercato si sgonfia e prima che intervenga la nettezza urbana con i suoi idranti. Nel nostro lavoro incrociavamo chi usava quell’intervallo per inventarsi come mettere insieme il pranzo con la cena. La busta di plastica in una mano, con l’altra rovistavano nei mucchietti di frutta e verdura, estraevano, annusavano, valutavano. Un giorno ci attardammo a osservare un vecchietto con un pomodorino in mano, indeciso sul da farsi. Lei mi guardò, alzò piano le spalle e col viso fece un’espressione per dire… è così, poi tornammo alla nostra ricerca.
Bisogna però ammettere che si potevano scovare dei veri tesori, come un intero platò di cipollotti, qualcuno ammaccato ma gli altri perfetti.
Mi guardò perplessa mentre soppesavo la mia scoperta.
– Cosa hai intenzione di fare?
– Portarli a casa e cucinarli, è un peccato buttarli.
– Ma puzzano.
Fu la settimana del cipollotto, fatto in tutte le maniere, in minestra, stufato, crudo nell’insalata.
L’idea luminosa venne a lei. Propose di fare una specie di collage, da applicare su una parete della cucina del mio bilocale in Via Gené. Progetto approvato e inizio lavori. Lei con le forbici si occupava dei platò di cartone, io con le pinze smontavo quelli di legno. Da una parte i pezzi che piacevano, il resto nel bidone. Ogni tanto ne fissavamo qualcuno al muro e ci piazzavamo, braccia conserte e testa inclinata, a contemplare. Chiodo dopo chiodo completammo la nostra opera.
Una sera vennero a cena certi suoi parenti che vivevano negli Stati Uniti. Lei presentò il nostro capolavoro con la vivacità della curatrice di una mostra, quelli si gasarono, scattarono flash da tutte le angolazioni. Chissà, magari in qualche cucina di Kansas City c’è una replica della nostra collezione.
Ormai da molti anni Canela non arriva più danzando e anche il nido di Via Gené è distante.
Però non mi sono separato dai nostri frammenti di platò. Prima del trasloco li ho fotografati e poi li ho staccati dalla parete, uno per uno, liberandoli dai chiodini. Li conservo ancora in un borsone da qualche parte, a ricordarmi quei giorni in cui giocavamo allegri come bambini.
Tra le bancarelle di Porta Palazzo, grande giostra multicolore.