Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personeRadici
di Giuliano Vergnasco
Se Porta Palazzo fosse una città sarebbe Parigi con quella bella tettoia di inizio Novecento pressochè identica a quella che si può ammirare nel parco della Villette; se fosse un porto sarebbe Marsiglia, una babele di persone e di lingue provenienti da tutto il mondo; se fosse solo un mercato sarebbe la Vucciria, odori, colori e profumi; se fosse solo un quartiere sarebbe la Medina di Marrakech, case, palazzi, vicoli pieni di gente. Porta Palazzo è tutto questo, è un quartiere che si estende da piazza Emanuele Filiberto alla Dora; è il più grande mercato all’aperto d’Europa, ospita il Balon, qualcosa in più di un semplice mercato delle pulci. Era ed è l’approdo dei nuovi torinesi quelli che provenivano e provengono dal Piemonte, dall’Italia e dal mondo.
Questa fu la via, attorno al 1906, che seguirono i miei trisnonni materni, Giuseppe Brodel e Delfina Jacob che arrivarono a Torino da Chiomonte e andarono a vivere in via Gerdil, dove li raggiunse anche la figlia Vittorina al rientro da un periodo di servizio presso una famiglia in Francia. Erano anni difficili ma il quartiere offriva molte occasioni di lavoro visto che qui avevano sede non solo le attività mercatali ma anche un enorme sottobosco di artigiani e di fabbriche (concerie, arsenale militare, mulini, lo officine del gas) che sfruttavano l’energia del canale dei Molassi che lo attraversava. In questo contesto Vittorina trovò lavoro presso l’arsenale e qui conobbe Vittorio Lamina che il giorno di capodanno del 1911 divenne suo marito. Nel 1920 nacque la loro unica figlia, mia nonna, Delfina. Della loro vita in questo periodo non ho notizie certe so che cambiarono diverse abitazioni, anche se sempre più o meno in zona.
Facciamo un salto temporale, Delfina si è sposata con Roberto e nel 1941 è nata Anna Maria, mia madre, durante il conflitto la famiglia si trasferisce a Chiomonte per poi rientrare in città alla sua fine e nuovamente a Porta Palazzo in via delle Orfane 29. Qui nascono le loro altre figlie Luisella, Carmen e Daniela, la quarta generazione a crescere nel cuore popolare di Torino.
In quegli anni la vita del borgo non si fermava mai, dalle 4 di mattina quando iniziavano i carrettieri a spostare i banchi dai depositi per posizionarli nel mercato, alla sera tardi quando il tram numero 7, che faceva capolinea vicino alla Tettoia dell’orologio, portava a casa gli operai del turno pomeridiano e, fino al 1951, all’arrivo dell’ ultima corsa della tranvia Pianezza/Druento/Venaria che a mezzanotte fischiava entrando nel controviale di corso Regina per fermarsi al capolinea. A quell’ora i bar, i chioschi e le vinerie erano ancora aperti, in attesa degli ultimi clienti per poi chiudere e riaprire alle 6 del mattino dopo.
Per almeno cinquantanni la vita della mia famiglia materna si è svolta tra le vie del borgo, poi come a volte accade la vita ti porta verso altre direzioni e in questo caso verso piazza Statuto dove ancora oggi mio fratello ed io abitiamo con le nostre famiglie mantendo però un legame, che sia la spesa al sabato oppure un giro al Balon, con il borgo che in qualche modo rappresenta una parte delle nostre radici.
Oggi, rispetto ad allora, è un contesto multirazziale e lo si nota non solo dalle facce e dai suoni ma anche dalle merci in vendita, sotto la tettoia dei contadini sono comparsi i primi banchi di ortaggi cinesi, nel mercato coperto le macellerie romene affiancano quelle italiane, nei banchi di abbigliamento si possono trovare anche i coloratissimi abiti tipici nigeriani. È peggio del passato? Io penso di no, se si vanno a leggere le cronache la delinquenza non mancava, così come la prostituzione e il contrabbando. Il degrado era reale le foto d’epoca raccontano di case fatiscenti e povertà diffusa, certo anche oggi ci sono parti del borgo mal messe e mal frequentate ma la soluzione non può essere quella di una riqualificazione che, come si può ipotizzare da alcuni interventi già effettuati e da altri in progetto, vada verso la via della cosiddetta “gentrificazione” e cioè quel fenomeno che spesso accompagna questo tipo di soluzioni e che consiste nel risanare e restaurare edifici, aprire attività che attirando un’utenza benestante espellono gli abitanti e di conseguenza eliminano l’anima popolare del quartiere.
Concludo con un ricordo di mia zia Luisella con un brano tratto da un suo intervento pubblicato nel volume “Quadrilatero” di Piergiorgio Balocco edito da Graphot: “Si cantava molto, cantavano le donne che lavoravano in casa, sartine, maglieriste o semplicemente casalinghe, magari accompagnate dalla radio, cantavano o fischiettavano gli operai delle boite nei cortili, i garzoni, i fattorini, i muratori, si cantava quando si andava a fare merenda nei prati, e se la voce era bella ogni tanto risuonava un canto dedicato ad un amico o ad un vicino di casa che festeggiava una ricorrenza. E alla domenica mattina si andava a Porta Palazzo a sentire quelli che cantavano, non più cantastorie ma interpreti di canzoni popolari.”