Barriera stories

Barriera di Milano si racconta attraverso le voci delle persone

I termosifoni

di Massimo Tallone

 

«Sì, prendiamo questa, è a cento metri dall’oratorio» disse Oddino, indicando con l’unica mano libera il fondo della via. La bambina col caschetto di capelli neri, di sei anni, che gli stringeva l’altra mano, si voltò nella stessa direzione. Caterina, con un bambino biondo in braccio e uno castano per mano, girò la testa e annuì. La facciata della chiesa era là, all’angolo fra via Paisiello e via Viriglio.
Erano davanti al n. 35 di via Viriglio e guardavano il cartello ‘Affittasi’. Quel tratto di via non era ancora asfaltato. Poche strade più in là, la città si dissolveva in prati, spiazzi incolti e scavi per nuove costruzioni. Era il 1957.

Caterina e Oddino avrebbero lasciato la casa di Fossano e si sarebbero trasferiti a Torino. Lui lavorava alla Nebiolo di via Bologna e non ce la faceva più a viaggiare, ogni giorno. Lo stomaco domandava pietà. Via Viriglio era abbastanza vicino a via Bologna. Sarebbe andato a lavorare in bici, roba di cinque minuti. La cosa importante era l’oratorio. Con tre bambini… Lui non sapeva ancora che il quarto era in arrivo. Caterina volse lo sguardo verso i negozi, di là del crovevia: una latteria che vendeva anche gelati, una drogheria, una panetteria. Nella via adiacente, avrebbe scoperto, c’era un ‘giardiniere’ (lo chiamavano tutti così) vendeva ciò che produceva. Quell’appartamento del terzo piano andava bene, per loro.
Il bambino biondo, in braccio a Caterina, ero io. E avevo un anno.

Crebbi in quella via, fra le mura dell’appartamento e il cortile dell’oratorio, con il campo di calcio in terra battuta circondato da platani dai tronchi possenti, globosi.
Né io né i miei fratelli andammo all’asilo, sicché il primo vero banco di prova per la nostra crescita fu quello delle scuole elementari. Tutti e cinque (giunse un altro figlio, dopo quello in lavorazione) frequentammo la Gabelli, con i gradini di pietra all’ingresso e le cementine a esagoni grigi e rossi sul pavimento. Ci andavamo a piedi, da soli.
Crescendo, mi specializzai nella mansione di andare a prendere il pane, il latte e i biscotti, nei negozi sottostanti, dopo che nostra madre, a inizio settimana, aveva dato indicazioni ai negozianti. La signora Toja, la lattaia, si affezionò molto a noi, e in particolare a me. Quando ero solo in negozio, rapida, prendeva un piccolo cono, ci metteva su una pallina di gelato e mi diceva: «Non dirlo a nessuno». Io, come uno scoiattolo con la ghianda fra le zampe, mi mettevo in un angolo e mangiavo, velocissimo, mentre lei preparava, lenta, il pacchetto da portare su. Suo marito, il signor Falchero, faceva l’imbianchino, ed era affettuoso come sua moglie. Di nascosto da lei, ci regalava le caramelle.
Arrivato a undici anni, nell’estate, sentii dire dal signor Falchero, mentre aspettavo il mio turno per ritirare la spesa, che aveva bisogno di un aiutante.
«Sono io, l’aiutante» dissi, pronto.
Lui rise, e anche sua moglie e i due o tre avventori.
«Tu sei troppo piccolo» disse, e mi passò una mano fra i capelli.
«Ma sono molto bravo» replicai, con orgoglio. Non volevo perdere quell’occasione di stare con i grandi.
«Va bene, ci penso» disse il signor Falchero, per chiudere la faccenda.

Tre giorni dopo disse a mia madre che l’aiutante era sparito e che gli serviva qualcuno, in fretta, per una settimana, che andavo bene io, dato che mi ero offerto, e che si trattava solo di dare la vernice ai termosifoni di una fabbrica. Il lavoro doveva essere consegnato entro quella settimana e lui era indietro. Fui ‘assunto’. La mattina dopo partii con lui e andammo in via Bologna, nell’edificio della ditta Costan, che produceva frigoriferi.
«Mettiti qui» mi disse, davanti a un termosifone, «bagna il pennello e vernicia il termosifone. Dove non ci arrivi, usa questo pennello più piccolo, angolato».
«Sì, monsù Falchero» gli dissi, sorridendo di gioia. E cominciai. Durò sei giorni, da lunedì al sabato. Partivo con lui, la mattina, mangiavamo insieme, seduti sui secchi di vernice, i panini preparati da sua moglie, e tornavamo insieme.

Alla fine della settimana, lui prese una busta color caffelatte sulla quale erano stampate piccole parole seguite da numeri scritti a penna.
«Ecco, questa è la tua busta paga» mi disse, e me la porse. Sentii il lieve rigonfiamento delle banconote. Non seppi che cosa dire, che cosa fare. Non mi aspettavo quel gesto. Forse non mi aspettavo nemmeno di essere pagato, al di là di una mancia. Mi bastava il regalo di avermi fatto sentire ‘grande’. E venivo pure pagato. E in modo diretto, poi, non tramite i miei genitori. Mi vennero le lacrime agli occhi. E anche a lui, mi resi conto.
«Va’, vai, tua mamma ti aspetta» mi disse, in fretta.
Corsi a casa e diedi la notizia in famiglia, entusiasta.

Ho conservato quella busta paga per decenni, trasferendola ogni anno nella nuova agenda, fino a quando, un giorno, ho dimenticato su un treno una tracolla da viaggio che conteneva un libro (ricordo ancora: era il Doctor Faustus, di Thomas Mann) e l’agenda…

Ma quella prima busta paga è rimasta impressa nella memoria. Come il primo cent di zio Paperone, ha segnato l’inizio di una fortuna. Ma non di denaro, di affetto.

Wikimedia Commons/Progetto artistico Opera Viva in piazza Bottesini