Borgo Rossini stories
Il quartiere si racconta attraverso le voci delle personeScende inquieta la sera
di Simone Schiavi
Lea aspettava per tutto il resto dell’anno quei tre mesi di tardi tramonti. Anzi, due mesi soltanto, perché agosto era per definizione un mese inutile, uno sciapo e già corrotto antipasto dell’autunno, composto da trentuno infinite domeniche. Ma adesso, a metà maggio, scattava un momento magico, verso le sette. A quell’ora, nel borgo, la luce ancora potente si mescolava col silenzio da fatiche di fine giornata, con la sera che prendeva il suo spazio ai danni del giorno ormai consumato. Le serrande iniziavano a scendere con fragore metallico, nei negozi. Oppure salivano con innocente arroganza, nei locali del cibo e della movida, in cui già s’intravedevano camerieri e cuochi impegnati in cene furtive, prima che gli avventori calassero in massa.
Lea girava per il borgo, tra via Catania e corso Regio Parco, puntando a giorni alterni verso il lungo Dora. Verso corso Palermo no, perché già pareva fuori mano e comunque era un altro mondo, come un confine naturale che andava seguito ma non attraversato. Con libro e granita, o libro e gelato, Lea si accomodava su una panchina o ancor meglio sul bordo della fontana blu, che pareva la piscina sbilenca di un fumetto e occupava proprio il cuore della piazzetta. Con la coda dell’occhio seguiva i negozianti, sfiniti e diretti verso una cena preparata in fretta, mentre i reduci dagli uffici si accaparravano un’ultima razione di cibi pronti in gastronomia. I bambini che giocavano all’aperto protestavano contro le madri, che li chiamavano per la quindicesima “ultima volta” in vista della cena. Ma anche quello era un gioco delle parti che sarebbe finito in urla, strepiti e bronci di maniera, fino a ricominciare uguale l’indomani.
Lea si godeva quel microcosmo fatto di mille attori non protagonisti. Suo padre, un fisico votato all’informatica primordiale, le aveva dato quel nome per via di un computer avveniristico, che si sarebbe chiamato in realtà ELEA, con la E iniziale e tutto maiuscolo, ma non voleva esagerare. E comunque gliel’aveva confessato a quarant’anni suonati. La stessa Lea che aveva appena lasciato il suo uomo, cui non poteva perdonare il peggiore dei peccati, l’inutilità. Ora, cercava la sua vita nei libri, sperando di trovarvi una qualche sorta di manuale d’istruzioni. Ma vi si sarebbe dedicata alla sera tardi, perché adesso aveva troppa voglia di mangiarsi il sole di Borgo Rossini e quel che restava del giorno. Del resto, aveva trascorso due mesi rinchiusa in casa, come tutti, finché qualcuno aveva riaperto le gabbie non sapendo più cos’altro decidere, arrendendosi all’evidenza con gran dignità.
Arrivò un vento lieve a scompigliare le carte della sera. Gli alberi dei due viali danzavano all’unisono e qualche foglia cadeva sbagliando stagione. Il sole sprofondava nell’incavo lasciato da due palazzi di quelli nuovi, che lentamente si mangiavano boite e marmisti, uno dopo l’altro. La polpa di quel giorno era ormai passata, il capitolo del libro era finito e, della granita, restava soltanto un dito di panna e caffè.
Si alzò per tornare verso la Dora, un rivolo d’acqua quasi asciutto, che in altre stagioni aveva fatto paura. Ci vide riflessa la sua vita. Asciutta in quel momento ma destinata a rigonfiarsi in futuro, magari a breve, forse a esondare addirittura per poi tornare quella di prima. Era un flusso che non si poteva gestire. Forse a volte andava soltanto seguito, lasciandosi andare: e magari, il vero segreto era quello.