Porta Palazzo stories
Porta Palazzo si racconta attraverso le voci delle personeLa stella sbagliata
di Simone Schiavi
Maledetto, maledetto mercato. Per Ahmed, andare a Porta Palazzo significava dover tradurre, ogni volta, quel dannato italiano per la mamma. Lei capiva le parole semplici (pane, lira, televisore) ma senza saper rispondere alle domande. In quella babele di lingue, lui le era indispensabile.
Ma quel giorno sembrava già piena estate, e restare in classe era un peccato grave. Così, arrivato davanti alla scuola, Ahmed prese coraggio.
Bighellonava tra i banchi e intanto pensava a Zidane, che parlava come lui ed era fresco dello scudetto 1998. Lo stesso Zidane che era sulla sua maglietta bianconera taroccata, lunga fino alle ginocchia. Il solleone trafiggeva l’arcobaleno dei teloni, tra onde d’aria calda che scioglievano l’asfalto. La luce del mattino riempiva gli occhi nocciola di Ahmed. Tutto sapeva di libertà, a quell’ora. Gente diversa, suoni differenti. L’unica certezza erano i suoi cugini, sempre lì in giro. Poco più grandi, lo canzonavano di continuo perché lui, a scuola, quasi ci si divertiva. Loro erano in gamba, però: maglie Nike colorate, Puma lucide ai piedi, pantaloni bianchi con le tre strisce a contrasto. E si facevano rispettare.
A un tratto scoppiò un trambusto. Ahmed isolò la parola “ladro” e la sagoma di un ragazzo in tuta che balzava felinamente sul 16.
Subito deflagrarono commenti assortiti.
– Il solito marocchino.
– Ma se non l’ha neanche visto!
– Beh, cos’era? Uno svizzero?
– Neri, gialli e rossi: tutti in galera. E buttare la chiave!
Ad Ahmed, immobile, il cuore batteva a tre cilindri. Proprio lì, vide il cugino Faruk intascarsi quattro pagnottine da un banco, per sfida, tirandone due a lui. Tempo di prenderle al volo e Ahmed si vide davanti cappello, camicia azzurra tutta sudata, pantaloni grigi scuri: un grande. Anzi, peggio: un vigile.
– Bambino! E la scuola?
– Mia mamma mi ha tenuto a casa.
– Ah sì? E ti ha anche detto di fregare le pagnotte al mercato?
Il vigile Michele Maria Capurso onorava il suo Corpo da quattro anni, shakerando regolamenti e buonsenso in parti differenti a seconda delle situazioni. Chiese lumi alla sua coscienza, che rispose subito (era una coscienza ben allenata) e si portò Ahmed verso la Brava bianca di servizio.
Il vigile Capurso rivisse nitidamente il gigantesco mercato della sua infanzia, un quarto di secolo prima. Uomini con basettoni, giacche di pelle e pantaloni a zampa, volti da contadini planati su una metropoli ostile. Adesso, a trentun anni, era lui quello integrato. Ripensò al padre, brusco perché a disagio in quel mondo aspro, distante dagli autoctoni taciturni e malfidenti quanto dai compaesani, freschi “penultimi” e quindi feroci guardiani del minimo benessere appena strappato. Porta Palazzo era rimasta la stessa, con facce, odori e sensazioni perenni.
Forse Michele poteva evitare al ragazzino le asprezze della Centrale. Già lo immaginava da sedicenne, a mostrare agli sbirri un silenzio di sfida, la sua guapparìa, col riformatorio come orgogliosa cicatrice. Con nulla da imparare, nessuna lezione su cui meditare, salvo vantare con gli amici la sua omertà.
Era però impossibile fingere di non aver visto nulla: quali valori avrebbe trasmesso, a un decenne che già camminava sul crinale tra un bene e un male ancora sfumati?
Michele tornò ai suoi dieci anni, in quel 1977 che fu impasto irripetibile di utopie e violenza. Nei giardini sotto casa, vedeva la generazione dei fratelli maggiori – vent’anni o meno – esfoliata come un carciofo; perdevano un ragazzo al mese, a causa dei soliti problemi, iniziati lì e terminati una domenica pomeriggio, in una stanza disordinata o su una panchina defilata, a morire soli come i gatti randagi. E tornò a quel giorno di maggio 1977, quando rientrò in casa seminando sul pavimento cinque pacchetti di figurine, di provenienza ignota ma intuibile. Un attimo dopo, infinite mani roteavano nell’aria, impegnate a consegnargli una sberla ciascuna. Le schivò quasi tutte ma capì lo stesso.
Ora toccava a lui. Poteva lasciar andare Ahmed e convincerlo così che il crimine paga, anche quello di basso cabotaggio, e che in fondo i “grandi” sono dei fessi. Oppure poteva portarlo via: avrebbe conosciuto le asprezze del rigore carcerario (per un bambino, anche un lecca-lecca offerto in un corridoio della Centrale significava prigionia), identificando per sempre l’ordine pubblico coi buzzurri in divisa che strappano i ragazzini alle mamme.
D’improvviso, la madre apparve in silenzio tra la folla muggente. Sottrasse ad Ahmed le pagnotte, le diede al vigile imbarazzato e mollò lo scapaccione più rumoroso del mondo. Si riportò a casa il figlio, forse diretto a una gragnuola di schiaffi. Quelli che il piccolo Michele Maria Capurso aveva evitato per un soffio, in quel 1977.
E lui rimase lì, con la divisa immacolata e due pagnotte umidicce da considerarsi corpo del reato, tra una folla vociante e inquieta, appoggiato a una Brava biancoverde probabile bersaglio di sputi.
Con la testa, Michele era ancora in quel tempo antico, sullo scambio che poteva indirizzare il treno della sua intera vita di qua o di là. E aveva impiegato ventuno anni, ad accorgersene. Per un attimo, aveva visto il mondo con gli occhi di Ahmed; nocciola come i suoi, sempre candidi nonostante tutto, sempre a rischio di scorgere la stella sbagliata, e di seguirla fino in fondo.